La storia di Clemmie Hooper, nota su Instagram come @mother_of_daughters, è diventata in Inghilterra molto nota. Perché da sconosciuta ostetrica britannica, questa ragazza trentenne al centro di moltissime polemiche è diventata una cosiddetta «mumfluencers» con migliaia di follower. Che utilizzava però account fake per insultare e denigrare quelle che lei considerava sue rivali. «All’inizio di quest’anno — ha ammesso — sono venuta a conoscenza di un sito web che conteneva migliaia di commenti negativi su di me e sulla mia famiglia. Leggerli mi ha fatto male e mi ha influenzato molto di più di quanto non avessi capito in quel preciso istante». Ha cominciato così a fare altrettanto sulle pagine social delle sue «nemiche» fino a quando, Clemmie Hooper, ha deciso di autodenunciarsi, cancellare e chiudere tutti i suoi account social e chiedere al Consiglio infermieristico e ostetrico del Regno Unito di poter non praticare mai più.
Il suo, ha raccontato anche il Financial Times, è solo uno dei tanti esempi di come i social possano cambiare la vita lavorativa delle persone. Non solo in Gran Bretagna. Solo pochi mesi fa il caso di Tommaso Casalini, vice allenatore della squadra giovanissimi del Grosseto Calcio che dalla sua bacheca Facebook aveva rivolto insulti nei confronti di Greta Thunberg, l’attivista svedese di 16 anni. In poche ore la sua esternazione aveva fatto il giro del web e il club del Grosseto calcio annunciò il licenziamento in tronco «per comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che su valori tecnici». Nel 2018 è stata la volta di una dipendente di un’azienda elettronica di Forlì che ne parlò, anche lei su Facebook, come «un posto di m…». La Cassazione ha ritenuto il post diffamatorio e ha ritenuto il licenziamento legittimo.
Il problema però è che spesso i confini non sono così netti. Virginia Mantouvalou, professoressa specializzata in diritti umani e diritto del lavoro all’University College London, ci ha scritto un intero paper accademico dal titolo: «Ho perso il lavoro dopo un post su Facebook. È corretto?». Secondo la professoressa i licenziamenti per l’attività sui social media dovrebbero essere considerati legittimi in occasioni limitate: «i datori di lavoro non dovrebbero avere il diritto di censurare le opinioni e le preferenze morali, politiche e di altro genere dei loro dipendenti anche se causano danni agli affari». Infatti, generalmente, in queste cause legali vengono implicati il diritto alla vita privata e il diritto alla libertà di parola. «Il problema però è che i tribunali non hanno familiarità sulla materia dei social — spiega il paper — e che queste piattaforme, essendo online, sono spazi praticamente pubblici». Quali sono i limiti a ciò che possiamo pubblicare senza rischiare di perdere il lavoro?
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha esaminato in più occasioni se e quando una limitazione (quella di pubblicare post su Facebook o altri social) ha avuto uno scopo legittimo e se i mezzi impiegati sono stati proporzionati allo scopo perseguito. «La natura del lavoro assunto e le dimensioni dell’azienda sono fattori importanti che devono essere presi in considerazione nella valutazione del danno della reputazione al datore di lavoro — spiega il paper —. Ma il datore di lavoro non è un giudice della moralità dei suoi dipendenti». La materia insomma è controversa ma può aiutare sempre sottolineare che le proprie opinioni sui social sono da intendersi personali e non rappresentative dell’azienda per cui si lavora.
(Vita in ufficio è una rubrica in cui i protagonisti siete voi, appassionati o non, resilienti, genitori, single, lavoratori stanchi e talvolta felici. Scriveteci e raccontate la vostra esperienza inviando una mail a cdecesare@corriere.it, mettendo in oggetto «Vita in ufficio»).
By Corriere della Sera