Dalla Survey hr digital di Mercer, l’Italia è allineata all’Europa pr la maturità digitale. Però solo in un caso su 3 c’è un master data unico per le funzioni
di Cristina Casadei
da “Il Sole 24 Ore ” del 10 ottobre 2019
Dopo alcuni anni in cui la parola digitale è stata affiancata a tutto, dalla strategia, all’impatto, alla tecnologia, nelle aziende siamo ancora allo stadio della decisione di avviare o meno la trasformazione digitale? O si possono cominciare a raccogliere i primi risultati? Alberto Navarra, che per Mercer, in Italia, guida le attività legate al tema del futuro del lavoro, dice che siamo al secondo stadio, ma ci sono alcune criticità, soprattutto nel nostro paese, come emerge dalla survey hr digital, che quest’anno è stata appunto intitolata Still transforming or already performing? La survey è un po’ come mettere insieme a discutere 120 capi delle risorse umane di aziende che, magari, in altri paesi sarebbero piccole, ma, in Italia, possono dirsi grandi: dipendenti oltre i 500 e fatturato oltre i 500 milioni di euro. Argomento: digital strategy, digital impact, digital hr technology. Insomma digitale a 360°.
L’Italia allineata all’Europa
Per la prima volta, dal calcolo dell’indice di maturità digitale, l’Italia non esce come il fanalino di coda: l’indice si attesta, infatti, a un livello europeo, con un punteggio del 3,44, contro quello Ue pari al 3,47. Questo punto di partenza rappresenta un primo stimolo a una riflessione sulla nostra capacità di recupero del digital divide rispetto agli altri paesi. «Siamo partiti tardi ma le direzioni risorse umane in Italia stanno recuperando – dice Navarra -. La domanda che dobbiamo porci, quindi, a questo punto non è più se dobbiamo intraprendere la trasformazione digitale, ma come possiamo accelerare per allinearci alle best practice internazionali, sfruttando l’innovazione del business. L’innovazione è un elemento importante, ma per provare a dare una risposta efficace di cambiamento bisogna capire come conoscere le persone, scoprire le nuove competenze e mappare se effettivamente ci sono o no e, se no, colmare il gap con upskilling e reskiling».
Il peso della comunicazione
Sul digitale, non tutte le funzioni aziendali sono state attraversate dagli stessi impulsi, allo stesso modo e hanno comunicato allo stesso modo il lavoro che stavano facendo all’interno. Il tema della comunicazione interna che, in passato, è stato spesso sottovalutato, oggi viene maggiormente curato, soprattutto nel caso di comunicazioni connesse ai nuovi strumenti, ai servizi e alla funzionalità, al punto che il 66% dei manager hr si dice d’accordo sull’effettiva pervasività delle azioni di comunicazione intraprese per comunicare la digital strategy aziendale. Questo non significa certo che l’efficacia di una strategia dipenda dalla comunicazione. Certamente dipende dai suoi contenuti, ma la mancata comunicazione o una comunicazione sbagliata altrettanto certamente rischiano di farla fallire.
Il role model
La chiara definizione delle aree di azione della strategia digitale prevede innanzitutto l’ingaggio dei top manager. Se è vero che la trasformazione digitale si può ottenere solo attraverso il coinvolgimento di tutta la popolazione, lo è ancor di più che il vertice aziendale deve essere il primo ad aver compreso bene la strategia e a dare il buon esempio, interpretando una sorta di role model. A dirlo è un capo hr su 2, tanto in Italia quanto in Europa.
L’ancora della company strategy
Affinché la digital strategy possa avere un qualche impatto deve essere ancorata alla company strategy che deve essere contaminata da elementi di digitalizzazione. La ricerca di Mercer mostra però che la strategia aziendale è tra le aree meno impattate dalla digital transformation. Prendendo il dato italiano, solo il 6% dei manager intervistati evidenzia la contaminazione.
Il verso
«Una considerazione che emerge dal confronto dei risultati italiani e di quelli europei riguarda la direzione, il verso delle forze che spingono il processo di digitalizzazione – osserva Navarra -. Per i manager italiani la digital transformation si propaga dal motore interno delle Operations di business dell’azienda verso le tipiche funzioni di staff, come possono essere l’Hr oppure l’It. In Europa il discorso è invece diverso perché la digitalizzazione si muove con una strategia univoca e una visione sistemica tutte le attività primarie della filiera del valore, passando per operations, supply chain e sales». La digitalizzazione è un’opportunità di touch point verso il cliente, sia come canale di vendita che come canale di comunicazione e ascolto. Questo solleva anche una sfida per le funzioni di staff perché, se non si attiveranno attraverso programmi rapidi e mirati, finiranno con il diventare interlocutori sempre più distanti dal business e dalle sue esigenze. Serve un salto nelle organizzazioni che porti a superare il fatto che oggi i programmi di digital transformation sono interpretati solo come una leva di efficienza, all’interno di modelli operativi già esistenti, tant’è che l’impatto più forte si ha proprio sulle operations e sui processi.
Il braccio operativo
Come la digital strategy si può considerare la mente del programma di digital transformation, allo stesso modo le digital technology si possono considerare il braccio, o quantomeno il primo driver di intervento. Solo un’azienda su tre, però, in Italia, dice di avere una strategia di hr technology. Laddove la digitalizzazione ha preso piede, parliamo delle prime 10 aziende con il maggiore indice di maturità digitale, Mercer registra che lo sforzo che viene impegnato dalle risorse umane nella gestione delle attività di ruotine si è ridotto del 20%. «Quel 20% di impegno delle direzioni risorse umane può così essere ricollocato e dirottato su attività che diventano strategiche, come per esempio il people caring – osserva Navarra -. La funzione delle risorse umane ha oggi una sfida molto più importante delle altre funzioni perché deve raccogliere il dato, analizzarlo e utilizzarlo per prendere decisioni. Purtroppo, però, i manager che hanno partecipato alla survey solo nel 3% dei casi dicono di sentire che la direzione risorse umane è promotrice della digitalizzazione. Ad essere visti come promotori della digitalizzazione sono semmai il top management, il ceo e le stesse funzioni di business».
Il people caring
«Per andare nella direzione del people caring, però, è necessario conoscere le persone a una a una, in maniera molto dettagliata, e poterle segmentare, anche grazie a banche dati uniche, dove tutti i dati sono integrati – interpreta Navarra -. Questo, soprattutto in Italia, è però uno degli elementi più dolenti. Gran parte delle tecnologie hr servono, per esempio, per digitalizzare alcuni processi di recruiting o fare valutazioni delle performance. Però si sta facendo poco, troppo poco nella creazione di basi di dati uniche: la nostra survey ci dice che di tutte le organizzazioni che hanno iniziato un viaggio nel cloud, solo il 35% ha un master data unico sul personale». Le risorse umane sono partite nel cercare di ottimizzare i processi seguendo il sogno dell’innovazione ma «non hanno considerato i fondamentali – aggiunge Navarra -: per avere una buona dorsale è necessario avere una base di dati integrata tra tutte le funzioni. Sembra un paradosso, ma in realtà non lo è: dobbiamo umanizzare la digitalizzazione e, a renderla umana, sarà proprio il dato che dovrà essere utilizzato per conoscere e prendersi cura delle persone in base ai loro specifici bisogni. Per arrivare a questo bisogna avere un dato univoco, di qualità e rappresentativo per profilare le persone e per erogare loro dei servizi ad hoc».
Il miraggio del master data unico
Le risorse umane oggi potrebbero avere la grande opportunità di beneficiare dell’esperienza e degli errori delle altre funzioni per portare dentro strumenti e approcci innovativi, tant’è che una delle competenze sempre più richieste nella funzione hr è la learning achievity. «Posso non sapere cosa mi succede domani – dice Navarra -, ma devo avere la capacità di apprendere le informazioni per raccogliere le sfide che il cambiamento mi impone».