Le aziende italiane dovrebbero porsi prima l’interrogativo sul dove partire, e solo in seguito fissare obiettivi di innovazione che altrimenti verrebbero ostacolati da specifiche dinamiche aziendali
Introdurre un innovation manager, e quindi di una figura deputata a gestire i progetti di innovazione (di prodotto e di processo) all’interno di un’organizzazione, può non bastare. Lo dice una recente analisi realizzata da Exs, la società di Gi Group che si occupa di «executive search», e focalizzata sulle modalità di implementazione dell’innovazione nelle imprese della Penisola.
Secondo l’analisi sono due le principali componenti da tenere in considerazione per ambire a un contesto organizzativo ideale affinché l’azienda riesca a internalizzare il processo di innovazione: la leadership trasformazionale e un livello interdipendenza medio-alta tra i membri del team. La prima prevede una figura carismatica che sappia ispirare e stimolare i suoi collaboratori e sia in grado di cambiare l’organizzazione in modo radicale; la seconda prevede frequenti scambi e la condivisione di risorse e informazioni tra i membri della singola unità organizzativa e tra le diverse unità.
«L’innovazione – osserva in proposito Pasquale Natella, Amministratore delegato di Exs Italia – è al centro delle scelte aziendali ma raramente viene preso in considerazione anche l’altro soggetto fondamentale di questo processo: l’organizzazione e la sua cultura».
Secondo le rilevazioni di Exs, i professionisti qualificati come innovation manager nel nostro Paese sono poco meno di 1.800 ed è un numero in crescita; nel 2018 sono state effettuate 121 ricerche di questi profili, distribuite in modo particolare nei settori manufacturing (37%), technology (29%) e banking (13%). Tali figure vengono richieste soprattutto nelle aree delle grandi città (Milano da sola contribuisce per il 57%, seguono Roma e Torino con il 22% e il 16% rispettivamente) mentre il livello di esperienza di queste figure è concentrato soprattutto nella fascia meno di 1-2 anni (nel 26% dei casi) e 3-5 anni (27%).
La chiave della questione, a detta di Natella, è in una domanda. «Le aziende italiane dovrebbero porsi prima l’interrogativo sul dove partire, e solo in seguito fissare obiettivi di innovazione che altrimenti verrebbero ostacolati da specifiche dinamiche aziendali. La maggior parte delle imprese italiane che osserviamo quotidianamente presenta uno stile di leadership transazionale, basato sull’autorevolezza (formale e non) del leader che orienta e motiva la produttività dei propri collaboratori attraverso una logica di obiettivi e premi. Ciò significa che il team dedicato all’innovazione, inserito all’interno di un tale modello, ha scarso margine di azione perché un’organizzazione di questo genere non è in grado di creare il cambiamento al suo interno e farlo proprio».
Gli effetti di un approccio più virtuoso sono (sulla carta almeno) però evidenti: combinando in modo adeguato alcune caratteristiche del leader e del team, dicono convinti da Exs, è possibile alzare la probabilità di successo di implementazione dell’innovazione in azienda dal 20% stimato dal Mip Politecnico di Milano fino al limite del 75-80%. Il cambiamento prospettato in fatto di leadership richiede in ogni caso tempo (gli esperti parlano da un minimo di 6 a un massimo di 12 mesi), soprattutto per ciò che concerne il passaggio da uno stile direttivo e transazionale (adottato dall’86% dei 150 team appartenenti a funzioni e industry diverse analizzati da Exs), a uno di tipo trasformazionale, al momento perseguito solo dal 14% delle organizzazioni considerate.
Se le startup fanno storia a sé, per loro natura dinamiche ed innovative, la maggior parte delle aziende italiane farebbe quindi bene a investire risorse per implementare nell’immediato un’innovazione che – dalle fasi di scouting all’avvio dei progetti pilota – venga sviluppata anche esternamente, attraverso un approccio aperto.
«L’open innovation – conclude Natella – consentirebbe al team dedicato di avere maggior libertà e flessibilità, caratteristiche di per sé comuni a chi si occupa di questi temi. Resta però fondamentale che il team esterno abbia autonomia sia in termini di attività, sia nella gestione del budget dell’attività di innovazione, non appesantendo di conseguenza i processi interni, e che assuma un ruolo centrale nel modello di business e nella strategia».
Di Gianni Rusconi